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Libro III
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Uscito delle salse acque vermiglie, Montava il sole per l'eterea volta Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava Ed agli uomini il dì su l'alma terra: Quando alla forte Pilo, alla cittade Fondata da Nelèo, giunse la nave. Stavano allor sagrificando i Pili Tauri sul lido, tutti negri, al dio Dai crini azzurri, che la terra scuote. Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra Cinquecento seduti, e per ciascuna Svenati nove buoi, di cui, gustate Le interïora, ardean le cosce al nume. La nave intanto d'uguai fianchi armata, Se ne venìa dirittamente a proda. Le vele ammainâr, pigliaro il porto, Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi Telemaco, e Minerva il precedea, La dea dagli occhi di ceruleo tinti, Che gli accenti al garzon primiera volse: «Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo La pueril vergogna. Il mar passasti, Ma per udir, dove s'asconda, e a quale Destin soggiacque il generoso padre. Su, dunque, dritto al domator t'avvia Di cavalli Nestorre, onde si vegga Quel ch'ei celato nella mente porta. Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai: Poiché mentir non può cotanto senno». Il prudente Telemaco rispose: Mentore, per qual modo al rege amico M'accosterò? Con qual saluto? Esperto Non sono ancor del favellar de' saggi: Né consente pudor, che a far parole Cominci col più vecchio il men d'etade». Ma di tal guisa ripigliò la dea, Cui cilestrino lume i rai colora: «Telemaco, di ciò che dir dovrai, Parte da sé ti nascerà nel core, Parte nel cor la ti porranno i numi: Ché a dispetto di questi in luce, io credo, Non ti mandò la madre, e non ti crebbe». Così parlando, frettolosa innanzi Palla si mise, ed ei le andava dopo. Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî, Ove Nestor sedea co' figli suoi, Mentre i compagni, apparecchiando il pasto, Altre avvampavan delle carni, ed altre Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati Ebbero appena i forestier, che incontro Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro, E a seder gl'invitaro. Ad appressarli Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli Del re. Li prese ambi per mano, e in molli Pelli, onde attappezzata era la sabbia, Appo la mensa gli adagiò tra il caro Suo padre ed il germano Trasimede: Delle viscere calde ad ambi porse; E, rosso vin mescendo in tazza d'oro, E alla gran figlia dell'Egìoco Giove Propinando: «Stranier»; dissele, «or prega Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri Lidi cercando, t'abbattesti appunto. Ma i libamenti, come più s'addice, Compiuti e i prieghi, del licor soave Presenta il nappo al tuo compagno, in cui Pur s'annida, cred'io, timor de' numi, Quando ha mestier de' numi ogni vivente. Meno ei corse di vita, e d'anni eguale Parmi con me: quindi a te pria la coppa». E il soave licor le pose in mano. Godea Minerva che l'uom giusto pria Offerto il nappo d'oro avesse a lei, E subito a Nettun così pregava: «Odi, o Nettuno, che la terra cingi, E questi voti appagar degna. Eterna Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima E poi grata mercede a tutti i Pili Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito Perché venimmo, su le patrie arene Con la negra torniam rapida nave». Tal supplicava, e adempiere intendea Questi voti ella stessa. Indi al garzone La bella offrì gemina coppa e tonda, Ed una egual preghiera il caro figlio D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto Le pingui cosce, degli spiedi acuti Si dispiccaro e si spartiro: al fine L'alto si celebrò prandio solenne. Giunto al suo fin, così principio ai detti Dava il Gerenio cavalier Nestorre: «Gli ospiti ricercare allora è bello, Che di cibi e di vini hanno abbastanza Scaldato il petto e rallegrato il core. Forestieri, chi siete? e da quai lidi Prendeste a frequentar l'umide strade? Trafficate voi forse? O v'aggirate, Come corsali, che la dolce vita, Per nuocere ad altrui, rischian sul mare»? Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire Spirò nel seno, acciò del padre assente Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo Di sé spargesse per le genti il grido: «O degli Achei», rispose, «illustre vanto, Di satisfare ai desir tuoi son presto. Giungiam dalla seduta a pie' del Neo Itaca alpestre, ed è cagion privata Che a Pilo ci menò. Del padre io movo Dietro alla fama, che riempie il mondo, Del magnanimo Ulisse, onde racconta Pubblica voce che i Troiani muri, Combattendo con teco, al suol distese. Degli altri tutti che co' Troi pugnaro, Non ignoriam dove finiro i giorni. Ma di lui Giove anco la morte volle Nasconderci; né alcun sin qui poteo Dir se in terra o sul mar, se per nemico Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo. Eccomi or dunque alle ginocchia tue, Perché tu la mi narri, o vista l'abbi Con gli occhi propri, o dalle labbra udita D'un qualche pellegrin; però che molto Disventurato il partorì la madre. Né timore, o pietà, del palesarmi Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio Mio padre in opra o in detto unqua ti feo Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani Campi che tinse il vostro sangue, o Greci, Tel rimembra ora, e non tacermi nulla». Ed il Gerenio cavalier Nestorre: «Tu mi ricordi, amico, i guai che molti Noi, prole invitta degli Achei, patimmo, O quando erranti per le torbid'onde Ce ne andavam sovra le navi in traccia Di preda, ovunque ci guidasse Achille; O allor che pugnavam sotto le mura Della cittade alta di Priamo, dove Grecia quasi d'eroi spenta rimase. Là cadde Achille, e il marzïale Aiace, Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino; Quell'Antiloco là, forte e gentile, Mio diletto figliuol, che abil del pari La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede. Se tu, queste sciagure ed altre assai Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso. Leveresti di nuovo in mar le vele, Ch'io non sarei del mio racconto a riva. Nove anni, offese macchinando, a Troia, Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove Ci consentì nel decimo a fatica. Duce col padre tuo non s'ardìa quivi Di accorgimento gareggiar: cotanto Per inventive Ulisse e per ingegni Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio, E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo: Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti Tanto di lui tenère uom, che d'etade Minor tanto è di lui, vero non parmi. L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento Mai, né in concilio, parlavam diversi; Ma, d'una mente, con maturi avvisi, Quel che dell'oste in pro tornar dovesse Disegnavamo. Rovesciata l'alta Città di Priamo, e i Greci in su le ratte Navi saliti, si divise il campo. Così piacque al Saturnio; e ben si vide Da quell'istante, che un ritorno infausto Ci destinava il correttor del mondo. Senno non era, né giustizia in tutti: Quindi il malanno che su molti cadde, Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca, Di forte genitor nata, che cieca Tra i due figli d'Atrèo discordia mise. A parlamento in sul cader del Sole Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci, Che, intorbidati dal vapor del vino, Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla. Menelao prescrivea che l'oste tutta Le vele aprisse del ritorno ai venti; Ma ritenerla in vece Agamennòne Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero Sdegno a placar dell'oltraggiata diva. Stolto! che non sapea ch'erano indarno: Quando per fumo d'immolati tori Mente i numi non cangiano in un punto. Così, garrendo di parole acerbe, Non si movean dal lor proposto. Intanto Con insano clamor sorser gli Achivi Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni, L'altro agli altri piacea. Funeste cose La notte in mezzo al sonno agitavamo Dentro di noi: che dal disastro il danno Giove ci apparecchiava. Il dì comparso, Tirammo i legni, nel divino mare, E su i legni velìvoli le molte Robe imponemmo e le altocinte schiave. Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde Agamennòn rimanea ferma: l'altra Dava ne' remi, e per lo mar pescoso, Che Nettuno spianò, correa veloce. Tènedo preso, sagrificî offrimmo, Anelando alla patria: ma nemico Dagli occhi nostri rimoveala Giove, Che di nuovo partì tra loro i Greci. Alcuni che d'intorno erano al ricco Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi Gratificar volean, torsero a un tratto Le quinci e quindi remiganti navi: Ma io de' mali che l'avverso nume Divisava, m'accorsi e con le prore, Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto. Fuggì di Tideo il bellicoso figlio, Tutti animando i suoi. L'acque salate Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo Menelao ci trovò, che della via Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra, Psiria lasciando dal sinistro lato, O invece sotto Chio, lungo il ventoso Mimanta, veleggiassimo. D'un segno Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa Navigammo alla volta, onde con quanta Fretta si potea più, condurci in salvo. Sorse allora e soffiò stridulo vento, Che volar per le nere onde, e notturni Sorger ci feo sovra Geresto, dove Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini, Misurato gran mar, molte di tori Cosce ponemmo in su la viva brace. Già il dì quarto splendea, quando i compagni Del prode ne' cavalli Dïomede Le salde navi riposaro in Argo: Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni Con quel vento, cui pria mandato in poppa M'aveano i numi, e che non mai s'estinse. Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi, Né so nulla de' Greci o spenti o salvi. Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso, Celare a te certo non vuolsi. È fama Che felice ritorno ebber gli sperti Della lancia Mirmìdoni, che il degno Figliuol guidava dell'altero Achille. Felice l'ebbe Filottète ancora, L'illustre prole di Peante. In Creta Rimenò Idomenèo quanti compagni Con la vita gli uscir fuori dell'arme: Un sol non ne inghiottì l'onda vorace. D'Agamennòn voi stessi, e come venne, Benché lontani dimoriate, udiste, E qual gli tramò Egisto acerba morte. Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello Che il figliuol dell'estinto in vita resti! Quel dell'Atride vendicossi a pieno Dell'omicida fraudolento e vile, Che morto aveagli sì famoso padre. Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio Di sembiante non men grande che bello, Fortezza impara, onde te pure alcuno Benedica di quei che un dì vivranno». «Nestore, degli Achei gloria immortale», Telemaco riprese, «ei vendicossi, E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora Non infuser gli dèi tanto di lena, Che dell'onte de' proci e delle trame Potessi a pieno ristorarmi anch'io? Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio Tanta felicità dagl'immortali Fu destinata, e tollerar m'è forza». «Poiché tai mali», ripigliò Nestorre «Mi riduci alla mente, odo la casa Molti occuparti a forza, e insidïarti, Vagheggiatori della madre. Dimmi: Volontario piegasti al giogo il collo? O in odio, colpa d'un oracol forse, I cittadini t'hanno? Ad ogni modo, Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi? Se te così Pallade amasse come A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse (Sì palese favor d'un nume, quale Di Pallade per lui, mai non si vide) Se ugual di te cura prendesse, ai proci Della mente uscirìan le belle nozze». E d'Ulisse il figliuol: «Tanto io non penso Che s'adempia giammai. Troppo dicesti, Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte: Ché ciò bramar, non conseguir mi lice, Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado». «Qual ti sentii volar fuori de' denti, Telemaco, parola? allor soggiunse La dea che lumi cilestrini gira. «Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo Ripatrïar dai più remoti lidi. Io per me del ritorno anzi torrei Scorgere il dì dopo infiniti guai, Che rieder prima, e nel suo proprio albergo Cader, come d'Egisto, e dell'infida Moglie per frode il miserando Atride. La morte sola, comun legge amara, Gli stessi dèi né da un amato capo Distornarla potrìan, quandunque sopra Gli venga in sua stagion l'apportatrice Di lunghi sonni disamabil parca». «E temo io ben», Telemaco rispose, «Che una morte crudel, non il ritorno, Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino. Ma di questo non più: benché agli afflitti Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia. Io voglio d'altro dimandar Nestorre, Che vede assai più là d'ogni mortale, E l'età terza, qual si dice, or regna, Tal che mirare in lui sembrami un nume. Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno Stendeasi tanto? Menelao dov'era? Qual morte al sommo Agamennòne ordìa |
L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse Tanto miglior di sé? Non era dunque Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse Lontano errava tra straniere genti, E quei la spada, imbaldanzito, strinse?» Ed il Gerenio cavalier Nestorre: «Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni. Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre Menelao biondo, poiché apparve in Argo, Nel palagio trovava Egisto in vita, Non si spargea sul costui morto corpo Un pugno scarso di cavata terra: Fuor delle mura, sovra il nudo campo Cani e augelli voravanlo, né un solo Delle donne d'Acaia occhio il piangea. Noi sotto Troia, travagliando in armi, Passavam le giornate; ed ei, nel fondo Della ricca di paschi Argo, tranquilla, Con detti aspersi di dolce veleno La moglie dell'Atride iva blandendo. Rifugìa prima dall'indegno fatto La vereconda Clitennestra, e retti Pensier nutrìa, standole a fianco il vate, Cui di casta serbargliela l'Atride Molto ingiungea, quando per Troia sciolse. Ma sorto il dì che cedere ad Egisto La infelice dovea, quegli, menato A un'isola deserta il vate in seno, Colà de' feri volator pastura Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse, Non ripugnante, l'infedel regina. E molte cosce del cornuto armento Su l'are il folle ardea, sospendea molti Di drappi d'oro sfavillanti doni, Compiuta un'opra che di trarre a fine Speranza ebbe assai men, che non vaghezza. Già partiti di Troia, e d'amistade Congiunti, battevam lo stesso mare Menelao ed io: ma divenimmo al sacro Promontorio d'Atene, al Sunio, appena, Che il suo nocchier, che del corrente legno Stava al governo, un'improvvisa uccise Di Febo Apollo mansueta freccia, L'Onetoride Fronte, uom senza pari Co' marosi a combattere e co' venti. L'Atride, benché in lui gran fretta fosse, Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse, E d'esequie onorollo e di sepolcro. Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso Giunto della Malèa, cammin felice Non gli donò l'onniveggente Giove. Venti stridenti e smisurati flutti, Che ai monti non cedean, contro gli mosse, E ne disgiunse i legni, e parte a Creta Ne spinse, là 've albergano i Cidonî, Alle correnti del Giardano in riva. Liscia e pendente sovra il fosco mare Di Gortina al confin, sorge una rupe, Contro alla cui sinistra, e non da Festo Molto lontana punta, Austro i gran flutti Caccia; li frange un piccoletto sasso. Là, percotendo, si fiaccaro i legni Scampate l'alme a gran fatica, e sole Cinque altre navi dall'azzurra prora, Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda. Mentre con queste Menelao tra genti D'altra favella s'aggirava, e forza Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro, Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto: Agamennòne a tradimento spense, Soggettossi gli Argivi, ed anni sette Della ricca Micene il fren ritenne. Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene Per sua sciagura il pari ai numi Oreste, Che il perfido assassin del padre illustre Spogliò di vita, e la funèbre cena Agli Argivi imbandì, per l'odïosa Madre non men, che per l'imbelle drudo. Lo stesso giorno Menelao comparve, Tanta ricchezza riportando seco, Che del pondo gemean le stanche navi. Figlio, non l'imitar, non vagar troppo, Lasciando in preda le sostanze ai proci, Che ciò tra lor che non avran consunto, Partansi, e il vïaggiar ti torni danno. Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo, Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse, Donde altri, che in quel mar furia di crudo Vento cacciasse, perderia la speme Di rieder più: mar così immenso e orrendo, Che nel giro d'un anno augel nol varca. Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse Più di tuo grado la terrestre via, Cocchio io darotti e corridori, e i miei Figli, che guideranti alla divina Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna. Pregalo, e non temer che le parole Re sì prudente di menzogna involva». Disse; e tramontò il Sole, e buio venne. Qui la gran diva dal ceruleo sguardo Si frappose così: Buon vecchio, tutto Dicesti rettamente. Or via, le lingue Taglinsi, e di licor s'empian le tazze. Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi I libamenti, si procuri ai corpi Riposo e sonno, come il tempo chiede. Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro Troppo a lungo seder prandio solenne». Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi Dier subito alle man, di vino l'urne Coronaro i donzelli, ed il recaro, Con le tazze, augurando, a tutti in giro. I convitati s'alzano, e le lingue Gittan sul fuoco, e libano. Libato Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto, Palla e d'Ulisse il deiforme figlio Ritirarsi voleano al cavo legno. Ma Nestore fermolli, e con gentile Corruccio: «Ah! Giove tolga, e gli altri», disse, «Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci, Qual tapino mortale, a cui la casa Di vestimenti non abbonda e coltri, Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti Mollemente s'addormino. Credete Che a me vesti non sieno e coltri belle? No; su palco di nave il figlio caro Di cotant'uom non giacerà, me vivo, E vivo un sol de' figli miei, che quanti Verranno alle mie case ospiti accolga». «O vecchio amico», replicò la diva Cui sfavilla negli occhi azzurra luce, «Motto da te non s'ode altro che saggio. Telemaco, ubbidire io ti consiglio. Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave A confortar rivolgomi, e di tutto Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco Que' giovani d'età, che non maggiori Di Telemaco sono, e accompagnarlo Voller per amistade. In sul naviglio Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba, Ai Caucòni magnanimi non lieve Per ricevere andrò debito antico. E tu questo garzon, che a te drizzossi, Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio De' corridori, che in tue stalle nutri, I più ratti gli accoppia e più gagliardi». Qui fine al dir pose la dea, cui ride Sotto le ciglia un azzurrino lume, E si levò com'aquila, e svanìo. Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio, Visto il portento, s'ammirava; e, preso Telemaco per man, nomollo e disse: «Ben conosc'ora che dappoco e imbelle, Figliuol mio, non sarai, quando compagni Così per tempo ti si fanno i numi. Degli abitanti dell'Olimpie case Chi altri esser porìa che la pugnace Figlia di Giove, la Tritonia Palla, Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi Favorì ognor? Propizia, o gran regina, Guardami, e a me co' figli e con la casta Consorte gloria non vulgar concedi. Giovenca io t'offrirò di larga fronte, Che vide un anno solo, e al giogo ancora Non sottopose la cervice indoma. Questa per te cadrà con le vestite Di lucid'oro giovinette corna». Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi Generi e figli al suo reale ostello Nestore precedea. Giunti, posaro Su gli scanni per ordine e su i troni. Il re canuto un prezïoso vino, Che dalla scoverchiata urna la fida Custode attinse nell'undecim'anno, Lor mescea nella coppa, e alla possente Figlia libava dell'Egìoco Giove, Supplichevole orando. E gli altri ancora Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro. Ma nella sua magione il venerato Nestore vuol che del divino Ulisse La cara prole, in traforato letto Sotto il sonante portico, s'addorma; E accanto a lui Pisistrato, di gente Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva Celibe vita. Ei del palagio eccelso Si corcò nel più interno; e la reale Consorte il letto preparògli e il sonno. Tosto che del mattin la bella figlia Con le dita rosate in cielo apparve, Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi S'assise all'alte porte, in sui politi Bianchi e d'unguento luccicanti marmi, Su cui sedea par nel consiglio ai numi Nelèo, che, vinto dal destin di morte, Nelle case di Pluto era già sceso. Nestore allora, guardïan de' Greci, Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti Di loro stanza maritale anch'essi, Frequenti al vecchio si stringeano intorno, Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto, E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco Collocârlo del padre, che le labbra In queste voci aprì: «Figli diletti, Senza dimora il voler mio fornite. Prima tra i numi l'Atenèa Minerva Non degg'io venerar, che nel solenne Banchetto sacro manifesta io vidi? Un di voi dunque ai verdi paschi vada, Perché tirata dal bifolco giunga Ratto la vaccherella. Un altro mova Dell'ospite alla nave e, salvo due, Tutti i compagni mi conduca. E un terzo Laerce chiami, l'ingegnoso mastro, Della giovenca ad inaurar le corna. Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle Faccian le mense apparecchiar, sedili Apportar nel palagio, e tronca selva, E una pura dal fonte acqua d'argento». Non indarno ei parlò. Venne dal campo La giovinetta fera, e dalla nave Dell'ospite i compagni; il fabbro venne Tutti recando gli strumenti e l'armi, L'incude, il buon martello e le tanaglie Ben fabbricate, con che l'ôr domava: Né ai sacrifici suoi mancò la diva. Nestore diè il metallo; e il fabbro, come Domato l'ebbe, ne vestì le corna Della giovenca, acciocché Palla, visto Quel fulgor biondo, ne gioisse in core. Per le corna la vittima Echefróne Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto Purissim'onda in un bacile, a vaghi Fiori intagliato, d'una man portava, Orzo dell'altra in bel canestro e sale; Il bellicoso Trasimede in pugno Stringea l'acuta scure, che sul capo Scenderà della vittima; ed il vaso, Che il sangue raccorrà, Perseo tenea. Ma de' cavalli il domator, l'antico Nestore, il rito cominciò: le mani S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla Pregava molto, nell'ardente fiamma Le primizie gittando, i peli svelti Dalla vergine fronte. Alla giovenca S'accostò il forte Trasimede allora E con la scure acuta, onde colpilla, Del collo i nervi le recise, e tutto Svigorì il corpo: supplicanti grida Figliuole alzaro, e nuore e la pudica Di Nestor donna Euridice, che prima Di Climèn tra le figlie al mondo nacque; Poi la buessa, che giacea, di terra Sollevâr nella testa, e in quel che lei Reggean così, Pisistrato scannolla. Sgorgato il sangue nereggiante e scorso, E abbandonate dallo spirto l'ossa, La divisero in fretta: ne tagliaro Le intere cosce, qual comanda il rito, Di doppio le covriro adipe, e i crudi Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio Su gli scheggiati rami, e le spruzzava Di rosso vin, mentre abili donzelli Spiedi tenean di cinque punte in mano. Arse le cosce e i visceri gustati, Minuti pezzi fer dell'altro corpo, Che rivolgeano ed arrostìano infissi Negli acuti schidoni. Policasta, La minor figlia di Nestorre, intanto Telemaco lavò, di bionda l'unse Liquida oliva, e gli vestì una fina Tunica e un ricco manto; ed egli emerse Fuor del tepido bagno, agl'Immortali Simile in volto, e a Nestorre avviossi, Pastor di genti, e gli s'assise al fianco. Abbrostite le carni ed imbandite, Sedeansi a banchettar: donzelli esperti Sorgeano, e pronti di vermiglio vino Ricolmavan le ciotole dell'oro. Ma poiché spenti i naturali fûro Della fame desiri e della sete, Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre: «Miei figli, per Telemaco, su via, I corridori dal leggiadro crine Giungete sotto il cocchio». Immantinente Quelli ubbidiro, e i corridor veloci Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui Candido pane e vin purpureo e dapi, Quai costumano i re, di Giove alunni, La veneranda dispensiera pose. Telemaco salì, salì l'ornata Biga con lui Pisistrato, di gente Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie Nella man tolte, con la sferza al corso I cavalli eccitò, che alla campagna Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi Di Pilo s'abbassavano le torri. Squassavano i destrier tutto quel giorno Concordi il giogo ch'era lor sul collo. Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade: E i due giovani a Fera, e alla magione Di Diocle arrivàr, del prode figlio Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi Ebber tranquilli ed ospitali doni. Ma come del mattin la bella figlia Comparve in ciel con le rosate dita, Aggiogaro i cavalli, e la fregiata Biga salîro, e del vestibol fuori La spinsero, e del portico sonante. Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli Lietamente volaro. I pingui campi, Di ricca messe biondeggianti, indietro Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci Gli allenati destrier movean le gambe, Che l'Itacense e il Pilïese al fine Del vïaggio pervennero, che d'ombra, Il sol caduto, si coprìa la terra. |
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